Compagnia del San Benedetto

IL TEATRO IN SAN BENEDETTO

Per i parmigiani il complesso Salesiano che comprende l’Istituto San Benedetto, la chiesa e l’Oratorio nonché l’asilo e la scuola delle  suore Figlie di Maria Ausiliatrice, è conosciuto come “San Bendètt. L’Oratorio, in particolare, era il polo d’attrazione dei ragazzi che abitavano la parte di città “al di qua del torrente” (dedsà da l’aqua) che comprende il Duomo. (Anche la Parrocchia della S.S.Trinità aveva un Oratorio molto attivo sebbene con spazi più limitati). Per quelli dell’Oltretorrente (dedlà da l’acqua) il polo era “I stimatén” (la parrocchia, allora, dei padri Stimmatini di via Massimo D’Azeglio).

 

IL 2° DOPOGUERRA

Anche nel dopoguerra l’Oratorio di San Benedetto ospitava centinaia di ragazzi che giocavano nei cortili non asfaltati. Quando arrivava sera erano impregnati di polvere e di sudore per cui assumevano un “odore” tipico che le mamme riconoscevano.

“Al sà d’oratori”, dicevano, e per pulire le ginocchia usavano la “zbrussc’ia” (spazzola). Alla domenica, all’ora della messa, il direttore dell’Oratorio ne chiudeva le porte. C’era chi cercava di scappare, ma lui lo prendeva per la gola: “Se uscite, niente panino con la mortadella”. Di conseguenza a messa venivano recitate anche preghiere che sapevano di mortadella ma probabilmente gradite ugualmente.

“Oratorio” ha sempre significato formazione, amicizia, relazioni e divertimento attraverso le tante attività che vi si svolgono come quelle di seguito descritte.

 

IL TEATRO.

Ai tempi d’oro il teatro dell’Oratorio era sempre gremito di spettatori che accorrevano alle rappresentazioni: scenette, commedie e perfino parodie di operette, che si tenevano quasi tutte le domeniche. Attori simbolo di quel periodo sono stati Giovanni Giampietri e Dante Pramori che formavano la coppia più conosciuta. Con Pramori, cinquant’anni fa, ebbi occasione di recitare anch’io nella compagnia di Bruno Lanfranchi. Di lui ricordo la gentilezza e l’umiltà con cui seguiva ed accettava le raccomandazioni di Lanfranchi. Altri attori erano: Araldi, Bastoni, Benassi, Benecchi, Bernardi, Bimbi, Buzzi Carlo e Graziano, Cantoni, Ferrari, i fratelli Ferro, Frassinelli, Giampietri Nando, Ghillani, Greci, Ilari, Negri, Paini, Peretti, Pettenati, Pinardi, Vettori Ezio, Zanichelli… L’avv. Fava era il regista. Il bravo Giancarlo (Lallo) Ilari entrò nella filodrammatica perché Giorgio Torelli segnalò ad Ugo Ghillani che c’era un giovane che divertiva i ragazzi del suo rione con giochi e storielle.

Ghillani ricorda una recita straordinaria intorno agli anni 50: una “rivista” che fece epoca, ripetuta più volte, in cui Dante Pramori, nelle vesti di Vanda Osiris, scendeva dal palcoscenico tra il pubblico gettando rose a destra e a manca, Gardini, nelle vesti di G.Verdi, introduceva un duetto lirico dalla Traviata e Lallo Ilari in “Tutù” ballava con serietà su di una corda tesa (una riga in gesso segnata sul palco).

 

Far parte della filodrammatica era un’esperienza educativa di prim’ordine. Richiedeva lavoro e impegno, creava relazioni e amicizia vera. L’abitudine a recitare, inoltre, toglieva anche il timore di parlare in pubblico con vantaggio per alcuni oratoriani che poi si interessarono di politica. Il far teatro era divertente anche per gli attori. L’eredità di quel gruppo venne raccolta da un gruppo di ragazzi e, dal ’64, anche di ragazze. Mi limiterò a citare, per difetto sicuramente, alcuni che, anche prendendo strade diverse, hanno continuato nel tempo: Ivo Campanini, Enrico Maletti, Andrea e Paolo Bellanova, Umberto Mezzi, Aldo Pesce, Lidia Finardi, Franca Sacchi, Eugenio Pedrelli, Marco Capacchi e tanti altri.

PASSAGGIO DI CONSEGNE NEL TEATRO

 Continua la testimonianza di Campanini: “Dalle Compagnie dei Giampietri e di Pramori, dove anch’io ho potuto fare esperienza, con qualche piccola parte, è nata la Compagnia teatrale successiva, che ho condotto per tanti anni con una grande novità: finalmente potevano recitare anche le donne. Nel 1957, con la commedia “La Finestra sul giardino” la Compagnia “Don Bosco “ è stata invitata per uno spettacolo nel carcere di “S.Francesco” dove ha potuto recitare davanti allo scrittore Giovannino Guareschi (detenuto per diffamazione a mezzo stampa) che ha voluto conoscere gli attori con i quali si è complimentato. Guareschi ci promise allora che avrebbe scritto qualcosa per noi.

Finalmente, nel 1964, nasce la prima Compagnia teatrale promiscua ed inizia una serie di commedie particolarmente gradite dal pubblico e che non interrompevano però il percorso educativo e spirituale voluto da don Bosco, in cui anche il teatro diventa più vero nel rispetto di ogni persona. La Compagnia “completa” debuttò nel 1965, con “Orfeo” di J.Cocteau, ottenendo grande successo”.

 

 

 

 

 Anno 1965 –filodrammatica San Benedetto “La reginètta dal marchè”. Da sin. Ivo Campanini, Alcide Ronzoni, Emilio Barani, Mario Capacchi

Fratelli Clerici

Appunti sul teatro dialettale parmense di Italo Clerici, Parma 9 aprile 1938

Per quante ricerche storiche si siano fatte, non risulta che esistesse prima d’oggi un teatro dialettale. Soltanto nell’ex Teatro dei Nobili di tanto in tanto venivano rappresentati dei bozzetti in vernacolo, in forma privatissima. Ma nulla esiste di cote’sti bozzetti.

L’idea di creare un teatro dialettale parmense (sia pur con nessuna fiducia di riuscire) nacque al sottoscritto, dopo aver partecipato nel 1923 ad una rivista intitolata “Metropolitania” che ottenne successo, e nella quale in modo speciale le scenette parmigiane piacquero moltissimo.

L’idea non attecchì mancando per prima cosa la volontà di molti, ed in secondo luogo i lavori da rappresentarsi.

Nel 1925 l’allora “Club della Risata” veniva chiamato da un istituto cittadino a collaborare ad una serata benefica, ed in quell’occasione venne racimolato in qualche modo un vadeuville in un atto intitolato “La sagra ed Colecc”, che malgrado non avesse nè capo nè coda ottenne successo.

Nel 1927 la compagnia, formata esclusivamente da elementi maschili, debutto unitamente a numeri di varietà con una commedia in un atto scritta da Italo e Giulio Clerici, dal titolo “La bottega ed Crispen”. Visto il successo morale e materiale essa fu allungata da uno a tre atti, e portata in vari teatri di provincia. La compagnia non si azzardava a debuttare in città, convinta che questa forma di teatro non piacesse ai cittadini.

Fu alle scuole “Pietro Cocconi” in un teatrino improvvisato nella palestra, che si assaggiò il pubblico parmense. Il successo oltrepassò le previsioni, tanto da far pensare sul serio a qualcosa di più concreto. Allora la “Bottega ed Crispen” venne ancora ristretta ad un atto. Mario Massa dopo molte insistenze cede un atto in italiano, che da me ridotto assunse il titolo di “Crispen dottor” scrissi inoltre un altro atto a cui diedi il nome di “L’onorevole Crispen”, macchietta di un calzolaio parmigiano, che era piaciuta moltissimo, creata dal sottoscritto.

Fu per merito della signorina Rosetta Fabbi se la compagnia potè diventare promiscua essa assieme a Giulio Clerici formò il “ruolo femminile“.

Venne dato l’assalto all’impresa del Teatro Petrarca, che dopo molte preghiere accettò di assistere ad una prova, e finalmente concesse il Teatro Il programma, se non ottenne, giustamente, successo di critica (forse non valendone la pena) ottenne clamoroso successo di cassetta, tanto da esser replicato molte volte.

Il seme del teatro dialettale era gettato. Poteva continuare o morire? Mancavano e mancano tutt’oggi i lavori da rappresentare, per questo si ricorse a riduzioni, a raffazzonamenti più a meno riusciti, si creo qualche farsetta senza allontanarsi da due atti. Si continuò per qualche anno in questo modo cercando sempre di migliorare, sforzi che approdarono a sensibili migliorie artistiche.

Si noti che in questo periodo si dovettero creare le commedie, gli attori, ed anche il pubblico, nuovo a queste manifestazioni} senza l’aiuto di direttori o di insegnanti, che disdegnavano questa volgare forma di teatro. Nacquero allora negli ambienti filodrammatici molte discussioni per fissare se la nostra dovesse ritenersi arte o meno. Si tirò innanzi convinti che per vincere bisognava lavorare e convincere.

Furono valido aiuto Giulio Clerici, Mario De Marchi, che oltre agli attori con il sottoscritto si improvvisarono autori. Nel 1932 sorse la compagnia di Alberto Montacchini

Che debuttò al Reinach con una riduzione di A. Testoni ”Il dilemma del marito” che assunse il titolo “Cola lì… saltemmla”; che contribuì al miglioramento artistico del teatro dialettale orientandolo verso una forma più concreta. Nell’autunno dello stesso anno nacque ad opera di Giulio Clerici e Mario De Marchi la prima commedia parmigiana in tre atti “La roseda ed S. Zvan”. allora sorse fra le due compagnie una gara che servì a migliorare tutto: attori e commedie e pubblico, male avvezzato quest’ultimo dalle sguaiate farse dei primi tempi. Si dovè nostro malgrado ricorrere a riduzioni più o meno ambientali anche per soddisfare le esigenze della massa che non guardava troppo per il sottile, pur di divertirsi, scopo questo raggiunto pienamente. Nel 1935 venne l’ordine di osteggiare le formazioni dialettali di tutta Italia, e nostro malgrado negli anni 1936-1937 non si potè riunire la compagnia per mancanza di nulla-osta.

Ora le due compagnie parmensi sono munite di regolare nulla-osta rilasciato dalla Federazione dello Spettacolo, ed agiscono saltuariamente nei teatri cittadini, provinciali ed interprovinciali. In qualità di professionisti. A nostro avviso il teatro dialettale può continuare vivere sempreché gli intellettuali di Parma entrino nello spirito del nostro teatro, considerino la nostra arte e scrivano commedie che abbiano una ragione d’essere rappresentate, e che rispecchino le vicende del nostro popolo che ha nel suo presente» e nella sua storia gli argomenti migliori per formare un vero teatro dialettale spiritoso, frizzante ed anche armonioso.

Consideriamo soltanto commedie dialettali le seguenti:

  1. “Al pramzan cmè le” di Giulio Clerici
  2. “La popolera d’ l’Aida” di Saturnino Giampepe
  3. “I cresmant” di Italo Clerici
  4. “Pepino Verdi” di Italo Clerici e R. Preti
  5. “Robi ed l’etor mond” di Italo Clerici
  6.  “La Roseda ed San Zvan” di Giulio Clerici e Mario De Marchi, e poche altre di cui mi sfugge il titolo.
  7. Può essere esportato il nostro teatro?

Negli esperimenti fatti a Milano, Torino, Genova, Bologna, Aosta, Cuneo, alessandria, Como, Varese, Lecco, Verona, Spezia, Rovigo, Venezia , Mantova, Reggio, Piacenza, Formia, Cremona e paesi del Mantovano, ci risulta che il teatro nostro modificato in parte, raffinato e ben recitato, ha in se i requisiti per piacere in molte regioni d’Italia. Quando le compagnie avranno un buon repertorio, ed avranno raggiunto un più alto grado di maturità artistica, l’esportazione sarà resa più facile.

Si prenda come esempio il tesoro genovese, che non è certo uno dei più comprensibile d’Italia, e si concluderà che fu solo per merito delle eccezionali doti artistiche del grande Gilberto Govi se questo dialetto è entrato nelle grazie degli italiani.

da “APPUNTI SUL TEATRO DIALETTALE PARMENSE”, di ITALO CLERICI, Parma 9 aprile 1938

(documento fornito dal signor Ziveri)

El Ravizi

La Consulta ringrazia Mezzadri Achille per avere gentilmente concesso di inserire nel Sito la seguente intervista pubblicata nel suo PRANZABLOG

mercoledì 8 aprile 2009

Quelli che… il teatro dialettale 

“A FÈMMA RÌDDOR DA VINTISÌNCH ÀNI”

“La nostra compagnia”, dice Enrico Iori,  fondatore e mattatore “è nata nel 1984, a Medesano” – “Le commedie sono tutte mie: ne ho scritte venticinque” – “Con noi ha recitato in dialetto pure una marocchina” – “Faccio anche il cantastorie”

Quella che Pramzanblog presenta oggi, per la serie “Quelli che… il teatro dialettale“, è una compagniosa “ariòsa”. Perché è di Medesano. Si chiama “El Ravìsi“, le radici e, a differenza di altre compagnie parmensi, qui tutto gira intorno a un mattatore d’eccezione,Enrico Iori, 71 anni. Ed è lui che spiega, subito, quali sono le differenze, le sfumature, tra dialetto e dialetto. “Perché”, dice “il dialetto delle nostre parti non è mica uno solo. Ci sono tanti modi di parlare, di intendersi. Noi, con la nostra compagnia, abbiamo un dialetto che è compreso perfettamente a Medesano, a Ramiola, a Fornovo, a Sala Baganza, a Collecchio, a  Felino. Ecco questo è, come direbbero i politici, il nostro “bacino d’utenza”. E infatti il nostro dialetto è diverso da tanti altri della nostra provincia e in particolare dal parmigiano”.

Lei dov’è nato?

Sono nato il 10 novembre del 1937, a Ramiola, frazione di Medesano, da una famiglia di contadini. Ho lasciato presto la scuola perché non mi piaceva studiare. Mi sono messo a lavorare presto. Poi, a 17 anni, nel 1954, sono emigrato in Venezuela.

Come mai?

Avevo il pallino di emigrare. E così l’ho fatto. Là, a Caracas, avevo uno zio. I primi tempi sono stati molto duri. Facevo il manovale, nell’edilizia. Sono rimasto in Venezuela fino al 1969. Lì mi sono sposato con un’emigrante spagnola, Josefína, e lì, il 25 settembre 1968, è nato nostro figlio, Enrico Giuseppe, che è un cantante lirico. Un basso.

Come è nata la sua passione per il teatro?

Prima di tutto sono stato preso dalla passione per la poesia. Ne scrivevo anche da bambino, di poesie. Poi in Venezuela, lontano dalla mia terra, malato di nostalgia, ne scrivevo ancora di più. Ma quando sono tornato in Italia ho smesso. Chissà perché. Forse perché non c’era più la nostalgi a a spingermi… Ma poi ho ripreso verso la fine degli anni Settanta. Poesie, racconti, scenette… Sì, mi ero messo a scrivere delle scenette, in pratica degli atti unici, per alcune ragazze, che le recitavano poi alle sagre. Il mio approccio con il teatro dialettale in pratica è nato così.

E come si è sviluppato?

È andata a finire che un gruppo di ragazze mi ha detto: “Perché non mettiamo su qualcosa di più impegnativo”? È così che è nata la compagnia dialettale El Ravìsi. Era il 1984.

Come si intitolava la prima commedia?

La rifórma sanitäria. In tutto ne ho scritte un sacco di commedie: venticinque. Tutte rappresentate. E vado avanti grazie alla comprensione di mia moglie.

Mi dice qualche titolo delle sue commedie?

‘Na gàta da plär, Al djävól e l’àcua santa, Al cavalér Turàs, Vója äd còren, Giuspón in Téra Santa, Al pòver zio Frànk.

Da quanti elementi è formata la compagnia?

Una dozzina. Eravamo così anche agli esordi. Ma c’è stato un periodo in cui eravamo di più. Comunque il numero dipende sempre dalla commedia che si rappresenta.

Tutti di Medesano?

Ce n’è di Felegara, di Noceto, di Gaiano… Abbiamo avuto anche una marocchina, Merjem Jabrane. Recitava con noi in Al djävol e l’àcua santa. Ora ha smesso. Comunque da noi non si recita un dialetto unico. Ognuno parla come si parla nel suo paese, quindi con il suo dialetto.

Si può considerare il teatro dialettale un teatro di serie B?

No. Non c’è una grande differenza tra il teatro dialettale, che è fatto da dilettanti, con quello professionale. Il pubblico ha la stessa esigenza: va a teatro per divertirsi. E quando si accendono le luci sul palcoscenico siamo tutti uguali. Forse una piccola differenza c’è: noi siamo “obbligati” a far divertire la gente che viene a vederci. Perché questo si aspetta da noi. Il teatro dialettale è come una terapia.  Dobbiamo riuscire a far staccare la spina alla gente, che arriva stressata e vuol pensare solo a divertirsi, a rilassarsi.

La sua compagnia compie quest’anno venticinque anni. E’ cambiato l’approccio del pubblico a questa forma di spettacolo?

I giovani? Si comincia a vederli, ma sono ancora pochi. E questo vale anche per gli attori giovani. Ho avuto delle esperienze negative in tal senso. Vengono, stanno con noi un po’, poi mollano. Così va a finire che lavoriamo per sei mesi per costruire un attore e poi l’attore… non c’è più. Si è volatizzato…

Quanta gente viene a vedervi?

Quando faccio una “prima” vengono anche 350 persone. Vogliono la novità. Poi, con le repliche, molto meno.

È migliorata la situazione del teatro dialettale da quando c’è la Consulta?

Molto. Ora il teatro dialettale è più vicino alla gente. E un grosso merito va sicuramente all’ex assessoreCarletto Nesti, che ha favorito tantissimo l’espansione del teatro vernacolare. Veniva sempre a vederci, anche con il nipotino.

Nella vostra compagnia ci sono più uomini o più donne?

Più donne.

Perché non rappresentate i classici del teatro dialettale parmigiano?

Io ho grande rispetto per i grandi autori di un tempo, ma ho sempre avuto il pallino di scrivere e le commedie me le scrivo da me. Sono uno dei pochi autori vernacolari che scrivono ancora… Se mi permette, ho una fantasia enorme… E infatti non scrivo solo commedie…

Che cosa fa d’altro?

Tengo recital dialettali, scrivo racconti e poesie, faccio anche il cantastorie…

Come i cantastorie di una volta.

Sì, come i cantastorie di una volta.  Ho scritto anche la storia del povero Tommasino Onofri. Molto toccante. Fin troppo toccante. In generale, però, preferisco cantare storie allegre.

Come mai suo figlio, Enrico Giuseppe, non ha seguito la sua strada nel teatro dialettale ed è diventato un cantante lirico?

Io sono nato con il pallino dello scrivere e del recitare, lui con quello del canto. Già da piccolino cantava nella corale del posto. Poi è entrato nella Corale Verdi, dove si sono accorti che aveva una voce importante, per cui ha cominciato a studiare al Conservatorio. Le nostre strade, naturalmente, si sono divise, anche se in passato abbiamo fatto anche qualche spettacolo insieme: lui cantava le sue arie, il recitavo le mie poesie.

Che cos’è per lei la parmigianità, anche se lei è della provincia?

Guardi, la parmigianità si può estendere a tutta la provincia, anche se abbiamo storie diverse, dialetti diversi. E comunque, per quanto mi riguarda,  i miei genitori erano di San Lazzaro e in casa mia si parlava parmigiano. Allora, ecco, per me la parmigianità è la nostra forma di essere, di essere legati alle nostre radici. Parma ha una grande storia, ha il parmigiano, ha il lambrusco, è famosa in tutto il mondo. Anche essere fieri di queste cose è parmigianità…

Esiste un dialetto perfetto, valido per tutti?

No. Esiste per esempio una grande differenza tra il dialetto parlato e quello scritto. Quello parlato molti lo capiscono, quello scritto lo conoscono in pochi. Nessuno si mette d’accordo sulle regole. Uno scrive una parola in un modo, uno in un altro. Io per esempio non metto le dieresi sulle vocali. Sono un nemico di quei due puntini lì… Sono per un dialetto scritto il più possibile somigliante a quello parlato. E voglio dimostrarlo con un libro che sto scrivendo, una raccolta di poesie, racconti, monologhi: lo scrivo con un dialetto facile da leggere, quindi anche più facile per i giovani.

Il dialetto sopravviverà?

Non c’è un solo dialetto parmigiano. Ce ne sono tanti. E io dico che, sì, sopravviveranno. Soprattutto nelle campagne, dove ci sono ancora rtagazzi che lavorano la terra, dove il dialetto si parla ancora in famiglia e quindi si può tramandare ai giovani. In città è diverso. I genitori parlano in italiano…

Achille Mezzadri

(Nelle foto, dall’alto – CLICCARE PER INGRANDIRE – : 1) La Compagnia El Ravìsi in “Al dievel e l’acqua santa” 2) Enrico Iori (Don Basilio) in “Al dievel e l’acqua santa”; 3) Enrico Iori e Camilla Reviati in “Al marì éd me mojéra”; 4) La compagnia in “La benestanta”; 5) La compagnia in “La peschera”; 6) Enrico Iori (Tognàs) in “La peschera”; 7) Enrico Iori e Meryem Jabrame in “Giuspon in Téra Santa”; 8) Enrico Iori e Simona Barbasini in “S’as pèrla èd còren l’é méi tazir”; 9) La compagnia in “La parigén’na”; 10) La compagnia in “Al pòver zio Frank”; 11) Enrico Iori (Savério) in “Al pòver zio Frank”; 12) Enrico Iori e Franco Ronconi in “Che fadìga esser sior”)

 

I Guitti di Veneri

La  compagnia”, aveva  preso il nome da quella “storica” : “ La risata”. Nome di quella gloriosa compagnia che rispondeva, ai tempi d’oro, ai nomi dell’Olimpo del teatro dialettale parmigiano: Giulio e Italo Clerici, Paride Lanfranchi, Alberto Montacchini,Iolanda Armenzoni,  Emilia Magnanini.  Roberto Veneri, era l’anima di questo gruppo, e  “Siamo mossi dall’entusiasmo, dall’amore per Parma, per il dialetto” era il suo modo di essere artista profondamente parmigiano. Già fondatore  alla fine degli anni ottanta della compagnia Ducale 61, con alcuni dei vecchi “Nuovi” e con attori nuovi. Poi un po’ di rimaneggiamento con l’aiuto di Franco Ferrari, si era formata la Risata.

Leggi tutto

Compagnia dialettale Nuova Corrente

Nuova Corrente , opera dal 1974 nel settore Cultura e Teatro in Dialetto , con traduzioni dai testi classici del teatro comico-brillante internazionale , con preferenza per il Vaudeville francese , e con opere originali scritte appositamente. Spazia da commedie a cabaret , con e senza musiche e canzoni , con incursioni nel varieta` e nello scherzo teatrale breve , attingendo a tecniche del teatro borghese , della commedia dell ‘ arte e dal teatro contemporaneo , non disdegnando anche quelle del circo. Leggi tutto