Scorsamära

Scorsamära era entrato in bar con la faccia scura. «Co gh’ät Scorsamära sit preocupè?»«Si, gh’ò da pagär dil bolètti e ‘n so miga cme fär. – «Pénsa che l’important l’è la salute – «Ricordot che quand vón al gh’à gnan un bòrr almeno tre linei ‘d fréva al gh’ j à sémpor».

Parlando della sua infanzia diceva: «Mi da ragas, dal parsutt, j ò sémpor visst sól che l’os. A s’éra cme i gat, che ‘l salam i n’al conosson miga e i pénson ch’al sia fat soltant äd péla. Meno male che po è rivè ‘l “Musichiere».

Poi continua: «A ca mèjja il bistècchi i s’ magnävon sóltant che …pociädi».

In un negozio, una signora, osservandolo gli disse: «La sua faccia non è nuova»«La gh’à ragión, siora. La gh’à pu äd ‘stant’an!»

Montacchini, tornato a casa, chiede alla moglie: «Co fät ?» «J’ anolén»«Acsi poch?»«N’ò fat sinquanta, mo t’al sè chi cresson»«Be mi n’in magn sinquanta, ti a t’ magnarè coj ch’a crèssa».

Gianpiero Caffarra

Colonna della prima ora del il Lunario è stato Gian Pietro Caffarra, scomparso nel 2000. Gian Piero, figura conosciuta in città per essere stato per molti anni alle dipendenze dell’INAIL, impegnato in politica e nel sindacato degli enti locali. Coltivava molti interessi culturali, il dialetto e il teatro parmigiano, la musica lirica e sinfonica e tutto quanto sapeva di parmigianità. Leggi tutto

William Tedeschi

W

WILLIAM TEDESCHI

William, parmigiano di non comune simpatia, così si descrive, in terza persona, per il nostro Sito.

William Tedeschi, ex grafico pubblicitario, ora vive di rendita, naturalmente ha investito nell’IMPS, fin da bambino sognava di diventare un musicista, gli abitanti del quartiere ancora oggi quando lo incontrano gli ricordano la sua ”orchestra” nell’orto dietro casa, formata di barattoli vuoti di vernice da lui scelti accuratamente nelle case
in costruzione e poi adoperati come batteria, immaginate lo stordimento!!! Fu forse per qualche ”sgridata” che pensò di dedicarsi all’armonica a bocca, strumento abbastanza facile da acquistare, si veramente facile…. le fregava ad uno zio,
che nella fretta per non farsi vedere, imparò a suonare lo strumento a rovescio. Portò questa passione nella sua vita e conquistò un premio prestigioso il primo posto alla Corrida di Corrado nel ’92. Dopo questo simpatico evento volle misurarsi con i professionisti e partì con la sua valigia di cartone per Trossingen (Germania) alla conquista del Campionato del Mondo di Armonica a bocca dove arrivò quarto assoluto nella categoria DIATONICA, concorso che rifece e nonostante sbagliando
categoria non venne squalificato ma conquistò il dodicesimo posto! Lo stesso piazzamento nell’OPEN categoria che si sfidano tutte le categorie. Svolge concerti in Italia e all’estero, diffondendo la parmigianità e sempre inizia i suoi concerti con la ”Stornellata parmigiana”. Diverse apparizioni televisive a Rai, Mediaset e televisioni nazionali. Negli ultimi anni ha dato vita ad una rassegna delle armoniche e la prima edizione si svolse a Parma nel Teatro Farnese della Pilotta, titolata: ”Armonicamente Buon Natale!” con artisti internazionali.  Da diversi anni collabora con la fondazione Mariele Ventre di Bologna e insieme a titolati artisti partecipa al Canta Natale. Ha all’attivo cinque CD. Ama schizzare e scrivere fiabe, forse si preparerà al suo futuro?
William
 GEN 17 TEDESCHI NOI PER LORO

LE BATTUTE DI WILLIAM (WILLY)

 

Willy è un vecchio armonicista che soffre di seri disturbi al cuore e relativa idraulica coronarica tanto da aver subito ben quattro interventi. In compenso è dotato di buon umore e ironia che gli consentono di esorcizzare e affrontare meglio la sua situazione non precisamente fortunata. Anche nelle situazioni più serie trova il modo di sorridere e fare battute. Commenta:

“poderogh riddor su, a t’ per poch? – Bizzogna ch’a ringrasja al Sgnór che almeno al ma dè coll carator chi”.

Data l’amicizia che ci lega spesso mi fa partecipe di questa sua situazione battute comprese. Ho pensato che alcune di esse possano essere gradite anche ai lettori del nostro Lunario. Alcuni esempi:

LA TAC
Willy era andato a fare una tac alla testa. Finito l’esame, un po’ preoccupato, chiese al medico:

“Scusi dottore, cosa mi ha trovato dentro la testa?”  – “Niente”

“Alóra gh’à ragión me mojéra!”

RISATA A DENTI STRETTI
Willy, dopo l’ultima botta, stava facendo tre mesi di riabilitazione al don Gnocchi e secondo lui stava comportandosi bene ma il medico che lo seguiva non era del tutto soddisfatto. Lo prese da parte e gli disse: ”Caro Willi, come avrà potuto notare la stiamo aiutando nei migliori dei modi ma anche lei deve collaborare, perché come avrà già capito, si tratta di una cosa seria. Ho pensato, se lei è d’accordo, dopo la prossima ginnastica, di fissarle un colloquio con la nostra psichiatra!” Dopo un attimo di perplessità, Willi, esorcizza la notizia rispondendo:

“Dotor l’é béle al quärt intarvént, s’andèmma äd coll pas chi forsi convgnirà parlär diretamént col prét”.

 AUTOIRONIA -WILLI        

  • Invalidità

Willy andava di fretta, non aveva trovato posto ed era in procinto di parcheggiare nelle strisce gialle per invalidi, il tempo di entrare a prendere un pacco ed uscire. Mentre stava ancora scendendo dall’auto arrivò un’auto con tanto di permesso e un vero invalido che gli disse:

“la so machina l’àn gh’à miga l’autorizasjón”.

“Al gh’à ragión, a la spost subbit e ghé dmand scuza mo ch’al credda che cme invalididè in-t-la tésta a gh’la podriss anca lasär perché veddol, par fär ‘na coza compagna a gh’ vól sól che un deficént!”

  • A teatro

Era al teatro Regio a deliziarsi con una bellissima opera, La Boheme. Si trovava in compagnia di tre signore della Famija Pranzàna, che anche loro si erano lasciate  coinvolgere ed emozionare alla musica rossiniana. Mentre stavamo uscendo e si facevano i commenti, chiese loro:

“Ragasi, a v ‘siv divartidi a teator?

“Bomben! J èmma cridè tutt al témp ad l’opra!

 

(a cura di Giuseppe Mezzadri per il Lunario parmigiano del 2018)

 

 

Ettore Guatelli

Come custode delle nostre tradizioni Ettore Guatelli, autore della importante raccolta del Museo contadino di Ozzano Taro, non è stato secondo a nessuno. C’era stima ed amicizia tra lui e noi di Parma Nostra, tanto che in occasione di alcune presentazioni del Lunario sono stati esposti alcuni dei suoi oggetti più significativi.

Quella di fare il maestro, per Ettore, il creatore del “Museo Guatelli”, è stata una necessità. Era un ragazzotto quando il medico esortò suo padre:

“Coll ragàs lì al ne pól  miga fär al paizàn, mandil a scóla putost.” E così Ettore divenne maestro elementare, fatto su in un qualche modo, basta ch’ sìa “, (da poco) dice lui, perché studiò come potè, da privatista. Ebbe come maestro anche il poeta Attilio Bertolucci che influì non poco sulla sua formazione e con il quale rimase in amicizia. Ettore faceva ai suoi ragazzi un tipo di scuola in anticipo sui tempi cercando, fra l’altro, di valorizzare le tradizioni popolari e specialmente il dialetto che la scuola era impegnata a sradicare. Non era tutta intuizione: gli veniva naturale, anche con i genitori dei ragazzi, parlare in dialetto per metterli a loro agio. Forse avrà esagerato un tantino se alcuni di questi si erano convinti che parlasse in dialetto perché non conosceva altro. Un giorno accostandosi ad un capannello di mamme che parlavano con la bidella fece in tempo ad udire quest’ultima che diceva loro:

“Mi l’ò sintì, al méster Guatél al sa anca l’italiàn.” Ettore ritenne utile intervenire e disse loro:

“Donne, se vi dico che siete “ipodotate”, voi cosa ne pensate?” Nessuna aveva capito cosa volesse dire e stettero zitte.

“A v’ ò ditt ch’ an capì njént. Vedete cosa può succedere se parlo in italiano?”

Scriveva Guatelli: “Una delle verità di cui credo aver scritto in un’altra occasione è che, sicuramente, le cose si possono raccogliere solamente amandole molto, anche senza aver subito chiaro quei perché che vengono fuori ad accumularle, a capirne valori e possibilità. E di dare al tutto un significato, viene poi logico e necessario. La mia può e deve considerarsi la raccolta delle cose ovvie assieme a quelle eccezionali o “dalla festa”: documenta la vita di tutti i giorni della maggior parte della gente, con qualche riguardo a quella più povera”. Un esempio di come “racconta” gli attrezzi come, ad esempio la falce.

“Quando c’era “d’andäralasgäda”, cioè alla grande falciatura che tra vicini di solito si faceva reciprocamente a turno, ognuno portava la sua falce immanicata (“ingambläda”) a misura propria, da venir bene alla mano. E occorreva batterla sulla “pianta” (o martladóra o incudinetta) con il martello apposito, bombato, e buono solo per quello. Magari lo facevi fare, la sera prima, da chi sapevi bravissimo per non esser costretto ad “ammazzarti” a “strappare” l’erba nel tener dietro agli altri che spesso erano il meglio fra i “falciatori” a cui ti premeva di stare alla pari. E la falce, loro, la sapevano tenere bene, con una “rola” che di solito durava fino all’ora di stacco. La “rola”, che forse corrisponde alla parola italiana “bisella”, è poi la parte assottigliata a martello e diventata tagliente che però, ad ogni volta che riaffili con la cote (där la preda, in dialetto) si “mangia” fino a sparire. I vecchi dicevano — ne ho sentito parlare più volte — che per fare una rola il più larga possibile (ma non troppo da “rivoltarsi”) bisognava batter la falce in modo da ricavarci un fossetto. E fare la prova con un grano di veccia che doveva poter scorrere nel “canalino” della “bisella“, dall’inizio alla fine senza cadere dalla lama.

Il maestro Guatelli ha avuto numerosi e importanti estimatori del suo lavoro. Alcuni vennero dall’estero a fargli visita. A questo proposito raccontava di un contadino tedesco che non sapeva una parola d’italiano. A chi gli chiedeva come facevano a capirsi rispondeva: – “Tra nueter paizàn a s’ capimma”.

Uno di questi estimatori è stato Giorgio Torelli che, nell’81 scriveva sul Giornale:
«Mi dispiace dire “museo”, parola stanca e tessuta di penombre. Quel che il maestro ossuto ha operato è stato un autentico ed amorosissimo salvataggio dei più umili e grandi simboli, tutti, della cultura contadina che non è seconda a nessuna. Pezzo dopo pezzo, reperto dopo reperto, oggi l’imponente collezione del maestro Guatelli è in grado di rivelare ai giovani di un’altra area della Padania, in quale storia affondino le loro radici. Trovo l’intento così onorevole che mi ci levo il cappello.»

Guglielmo Capacchi

 

Guglielmo Capacchi

Di recente, alla camera di Commercio di Parma, si è tenuto, a cura della Comunità delle Valli dei Cavalieri, un convegno per ricordare vita e opere del  professor Guglielmo Capacchi, una persona speciale, come scriveva Pier Paolo Mendogni, che ha dato molto alla nostra città coltivando, parallelamente alla sua attività di docente universitario, con rara intelligenza e con grande serietà, il dialetto e, nel senso più ampio, la storia di Parma e non soltanto, diventando l’esperto più qualificato in questa materia che ha nutrito le nostre radici.

Ognuno dei vari interventi ha evidenziato un aspetto particolare dei tanti ambiti di interesse del professore. Giuseppe Marchetti, che ha condotto il pomeriggio, da vecchio amico del professore, ha esordito dicendo che Capacchi va studiato da diversi punti di vista: professore, libraio, profondo conoscitore del dialetto e delle tradizioni popolari e amico delle persone appassionate come lui che accoglieva nella bottega della moglie in borgo Giacomo Tommasini. Bottega che era, ed è tutt’ora, ritrovo per chi ama l’idea dei libri. Una sorta di caffè letterario come quelli di un tempo.

La vita

Guglielmo Capacchi è nato in Borgo Torto nel 1931. Il padre Erminio che aveva bottega di barbiere in via Cavour gli trasmise la passione per i libri  e voleva che imparasse sia il dialetto che l’italiano. Finita la guerra Guglielmo, che era sfollato a Giarale di Marzolara, torna in città, studia al Romagnosi e lingue a Bologna dove diventa professore di Lingua e Letteratura Ungherese.  A Bologna dà avvio all’insegnamento di Filologia Ugro-finnica e getta le basi per quella che diventerà la Scuola Permanente di Studi sullo Sciamanismo. Parla correntemente ungherese, inglese, spagnolo e esperanto, di cui fu anche insegnante e grande sostenitore, e se la cava anche con lo swahili. Diventa ungarologo per una combinazione fortuita ma poi vi si dedica senza risparmiarsi. Per questo, Matteo Montan, nel suo libro La città a parole, con felice espressione, lo definisce “un ungherese del sasso”. Muore a Parma il 7 ottobre 2005.

Docente universitario

Carla Corradi Musi, sua excollega, ha trattato la docenza e le opere di Guglielmo Capacchi ungarologo che si prodigò per far conoscere la cultura ungherese e ugrofinnica in generale, pubblicando una grammatica e numerosi saggi letterari e linguistico-antropologici. Fu anche ottimo traduttore di poesie e di testi teatrali.

Scrittore ed editore

Maurizio Silva ha raccontato della lunga collaborazione che ebbero. I principali titoli di argomento locale rendono l’idea della mole di studi e di ricerche che egli ha fatto su storia, arte, dialetto e tradizioni. È del ’68 la pubblicazione di Proverbi e modi di dire parmigiani cui seguì Sapa e badil. Altri proverbi e modi di dire parmigiani .Vengono poi I Castelli parmigiani, La cucina popolare parmigiana, Che lavór, sjor Gibartén. Piccole storie di modi di dire parmigiani, Oh, l’è chì al formaj bón! Altre piccole storie di modi di dire parmigiani. Come storico e consulente editoriale curò la pubblicazione di testi come L’arte dell’incisione a Parma, Viaggio ai monti di Parma, La féra ‘d San Giuzép, La Zecca di Parma, La storia di Bardi, Il declino di un Ducato, Le osterie parmigiane, Feste e spettacoli alla corte dei Farnese.

Il Dizionario Italiano-Parmigiano

Silva, parlando del famoso e atteso dizionario Italiano-Parmigiano, ha spiegato che fu molto impegnativa per entrambi perché Capacchi lavorava con schede che continuamente aggiornava. Purtroppo, non avendo ottenuto nessun aiuto dalle Istituzioni, egli chiese al professore di attendere prima di dare alle stampe il dizionario Parmigiano-Italiano. Quando risultò chiaro che si poteva procedere era troppo tardi. Seri problemi familiari lo fecero desistere.

A proposito del dizionario, posso dire  che, quando nel 1992 uscì, per noi di “Parma Nostra” diventò subito il Vangelo e veniva, e viene tutt’ora, sempre consultato. Il dizionario, a mio giudizio, è anche qualcosa di più talmente è ricco di citazioni. Infatti non si limita ad indicare i termini dialettali più comuni corrispondenti alla voce italiana ma elenca, in molti casi, tantissimi e curiosi sinonimi che, ai meno giovani, spesso suonano ancora familiari. Riporta anche parecchie espressioni idiomatiche che essendo scritte in modo completo e per esteso contengono preziose indicazioni su come si costruiscono le frasi con relative congiunzioni, apostrofi, accenti ed elisioni. Dal punto di vista della grafia, quello che ho imparato, l’ho imparato soprattutto sfogliando gli esempi del dizionario. In seguito, quando nel 2000 ho pubblicato il mio terzo libro, Pärma e Brazil, non ho più disturbato il professore che mi aveva usato la gentilezza di correggere la parte dialettale del mio secondo, Riz e Vérzi, ma ho potuto fare da solo con il solo sussidio del suo dizionario. Il professore aveva  una grande disponibilità, ad aiutare chi scrive in dialetto. Lo ha fatto per Fausto Bertozzi, Gianpiero Caffarra, Enrico Maletti e sicuramente altri ancora.

Uomo di cultura

Marzio Dall’Acqua, ex direttore del nostro Archivio di Stato, ha raccontato che arrivato a Parma, provenendo da Mantova, della nostra città non conosceva molto per cui gli fu molto preziosa la collaborazione con Capacchi che diventò per lui un punto di riferimento. La sua vasta cultura gli fu preziosa in diverse occasioni. Li univa il comune interesse per la cultura popolare. Secondo Dall’Acqua il problema vero era, all’epoca, quello di salvare la cultura popolare intanto che era possibile. La cultura orale di un mondo che sarebbe scomparso con i parlanti. Ha spiegato che un resto archeologico sotterrato, se lo è stato per  1000 anni, lo può stare ancora, ma il dialetto, la parola che sfugge, che muore con la persona che la pronuncia, questo no. Il lavoro sul dialetto, sulle tradizioni e sugli usi popolari che, in quel momento, poteva esser fatto solo da una persona di grande intelligenza e di grande sensibilità, Capacchi lo ha fatto e le sue pubblicazioni sono un tesoro che è stato salvato.

Gianluca Bottazzi, parlando dell’uomo Capacchi, studioso di storia del territorio, ha detto che salendo i tre gradini di borgo Giacomo, dal professore, ha sempre ricevuto, tali e tante erano le sue conoscenze e notevole la  sua capacità di dialogare e di dare indicazioni.  Il professore spiegava volentieri, allo studioso che incontrava in quel momento, gli aspetti che hanno caratterizzato le sue pubblicazioni e sempre con un tratto bonario che lo fa rimpiangere maggiormente.

La “Fondazione Borri” ha voluto essere presente ad una manifestazione che rendeva omaggio ad un protagonista importante della nostra cultura perché, spiegava  Mariacaterina Siliprandi, la cultura ci aiuta a vivere meglio. Omaggio a Capacchi uomo di cultura lo ha inviato anche, da Amsterdam, il Duca Carlo Saverio di Borbone Parma, che ha ricordato come anche suo padre apprezzasse il professore tanto da conferirgli il cavalierato dell’Ordine Costantiniano di San Giorgio e quello sotto il titolo di San Lodovico.

La Comunità delle Valli dei Cavalieri

Il territorio della Valle dei Cavalieri, che più propriamente andrebbero chiamate Valli, è costituito dal sistema orografico appenninico dei corsi dell’Enza e della Cedra, dove gli antichi borghi fortificati che occupavano posizioni strategiche e dominavano le linee ottiche di queste zone, costituivano un sistema poligonale di difesa dimostratosi nel tempo quasi inespugnabile. Gli antichi borghi erano: Castagneto, Lalatta, Montedello, Palanzano, Pieve, Ranzano, Succiso e Vairo.

Francesca Scala, parlando a nome dei soci della “Comunità delle Valli dei Cavalieri”, organizzatrice dell’evento, ha spiegato che il convegno era un riconoscimento dovuto al professore che è stato uno dei fondatori dell’associazione portandovi entusiasmo e il seme della ricerca. Ha spiegato che le finalità della Comunità sono: mantenere “viva” nella memoria le Valli (cercare di diffondere documenti di ogni tipo; lettere, iscrizioni, storie di personaggi, apporti orali, preghiere, proverbi, locuzioni); offrire “tessere”, seppure modestissime, al mosaico della storia; favorire legami di collaborazione fra i soci e di affetto fra le montagne e chi si è allontanato; lasciare agli abitanti la consapevolezza di possedere un patrimonio culturale che deve essere protetto. Sullo stesso argomento, Giancarlo Bodria ha sottolineato quanto l’associazione sia importante per la ricaduta culturale sul territorio. Territorio, quello di Palanzano, Monchio e Ramiseto, che il professore, che pure era nato in borgo Torto, amava moltissimo essendo la zona di origine della sua famiglia. Bodria ha illustrato con dovizia di particolari il non facile percorso che ha permesso di raggiungere il prestigioso risultato. L’idea della Comunità è nata nel ’71 e la sua realizzazione si deve ad un gruppo di studiosi a far parte del quale venne invitato anche il professor Capacchi che si spese con generosità. Quanto mai preziose si rivelarono le sue conoscenze di araldica ma soprattutto quelle storiografiche relative a quelle valli che conosceva non meno a fondo di chi le abitava. Lo stesso vale per la redazione dei 29 annuari pubblicati, ad oggi, nei 42 anni di vita della Comunità. Giorgio Maggiali, sindaco di Palanzano, ha espresso la gratitudine della sua gente per il professore che ha collaborato con forza, competenza e trasporto verso le montagne alla nascita dell’associazione.

Etnografo

Carlotta Capacchi ha ricordato che circa 40 anni fa, a Monchio, in occasione di un funerale, il papà Guglielmo, ebbe occasione di sentire I Cantor ‘d Monc’eseguire alcuni canti sacri. Fu amore a prima vista. Ascoltandoli ebbe la percezione di trovarsi di fronte qualcosa di diverso da quanto aveva udito fino ad allora. Cantavano il Miserere, le litanie, il Magnificat e il Dies Irae. Non dette pace ai cantori fintanto che non riuscì a trascrivere e registrare.  Consegnò l’incisione  a Roberto Leidi titolare della cattedra etnomusicologia a Bologna che, a sua volta, la inviò ad un convegno internazionale di musiche popolari. L’ascolto lasciò tutti senza parole. Il verdetto fu unanime; la musica sacra di Monchio è un caso unico. I cantori  vennero invitati ad esibirsi alla Piccola Scala di Milano. I testi furono recepiti nel libro di Marcello Conati I canti popolari della Val d’Enza e della Val Cedra che si avvalse della collaborazione del professore.

Il coro di cantór ‘d Monc

Giacono Rozzi, a nome dei coristi,  ha esordito dicendo:”Noi cantiamo “a orèccia”, non c’è nessun maestro, nessuno che ci guida e nessuno che ha dimestichezza con la musica”Il coro propone un repertorio di canti sacri in latino, che da secoli la tradizione orale ha tramandato di generazione in generazione. Quando c’è  bisogno va, di loro, chi è disponibile. Parlando del Dies Irae, il loro pezzo forte che Capacchi tanto amava da essere scherzosamente chiamato “il professor Dies Irae”, ha spiegato che ha due versioni che Capacchi, con ironia, li aveva denominati il Dies Irae di sjor e il Dies Irae di povrètt perché uno ha una melodia solenne e l’altra più semplice. Anche il Magnificat ha una versione solenne che si canta nelle feste della Madonna e nei Vespri. Rozzi, concludendo la presentazione del gruppo, ha detto: “Per il professore, questi canti erano una delizia. Noi glieli dedichiamo sperando che da lassù ci senta e possa godere con noi questa bella serata. Ancora grazie professore!”

Capacchi studente

E’ toccato ad alcuni suoi vecchi compagni di scuola, Gianpaolo Minardi, Giorgio Orlandini e Fabio Fabbri dare un interessante contributo alla conoscenza del professore studente al Romagnosi negli anni ’40. Ne è scaturito il ritratto di un Capacchi poliedrico; aveva, già allora, autorevolezza. Sapeva l’inglese quando in pochi, all’epoca, lo conoscevano. Leggeva molto ed era già colto aiutato anche da una robusta memoria. Aveva molti interessi; musica, pittura, cinema, teatro e una grande curiosità. Aveva uno spiccato senso dell’umorismo che contrastava con il suo vestire sempre di scuro e l’espressione seriosa. Ad esempio, parafrasando Eisentein, con i suoi compagni di scuola, girò il film Tchapamowskij corriere dello Zar (ovviamente da leggersi, alla russa, Ciapamoschi), di cui era animatore e sceneggiatore, girato sulle rive della Baganza. Era tale il suo ascendente sui compagni che riuscì a convincerli a studiare l’Esperanto e a coinvolgerli nell’avventura di rimettere in piedi il giornale “L’uomo libero”. Baldassarre Molossi e Pier Maria Paoletti ci mettevano la firma ma l’autore era soprattutto lui. Fabbri, a nome suo e degli amici, ma vorrei aggiungere anche a nome di tutti i parmigiani, ha concluso dicendo che il Comune di Parma e di Palanzano avrebbero il dovere di dedicargli una via o una piazza perché è stato un grande rappresentante delle valli, un grande parmigiano e un grande italiano.

 

 

Di recente, alla camera di Commercio di Parma, si è tenuto, a cura della Comunità delle Valli dei Cavalieri, un convegno per ricordare vita e opere del  professor Guglielmo Capacchi, una persona speciale, come scriveva Pier Paolo Mendogni, che ha dato molto alla nostra città coltivando, parallelamente alla sua attività di docente universitario, con rara intelligenza e con grande serietà, il dialetto e, nel senso più ampio, la storia di Parma e non soltanto, diventando l’esperto più qualificato in questa materia che ha nutrito le nostre radici. Leggi tutto